La produzione del carbone

In alta Ossola il carbone veniva classicamente prodotto a partire dal legname di faggio, mentre in altre zone del VCO, come ad esempio in Val Grande, era utilizzato anche quello di castagno e rovere.

L’attività richiedeva l’intervento di veri e propri specialisti capaci di realizzare una combustione imperfetta in cataste di legno alte alcuni metri. Si trattava di un lavoro ritenuto modesto e scarsamente remunerato, nonostante richiedesse particolari abilità tramandate di padre in figlio. Si racconta che i carbonai fossero spesso persone meticolose e taciturne, abituate a vivere sole per diversi giorni in montagna, concentrate nel mantenere costante l’attività del fuoco all’interno della pila di legna. A volte si avvalevano dell’aiuto di un garzone che vegliava sulle operazioni mentre essi dormivano per qualche ora in un piccolo riparo approntato sul posto. Tra gli ossolani, gli specialisti più famosi erano quelli di Montescheno, Viganella e Schieranco, la cui attività è documentata anche in Valsesia e nelle Prealpi Varesine fin dal ‘500. Alcuni di loro sono poi stati attivi anche in Savoia e in altre parti della Francia. Importante poi il mercato del carbone di Anzola, a cui afferivano acquirenti anche dal Cusio e dal Verbano.

Innanzitutto, lavorando spesso su pendici scoscese, venivano ricavate delle ampie piazzole sostenute da muri a secco. Per evitare il propagarsi di incendi, l’area veniva ripulita da alberi e arbusti. I vari tronchetti, o parti di tronco, venivano impilati sulla piazzola così da formare una piramide conica con cupola a uovo provvista di un foro centrale attraverso il quale si immettevano delle ramaglie ardenti per dare avvio alla combustione. Questa veniva regolata mediante aperture e chiusure continue sui fianchi della catasta, ricoperti da uno strato di fogliame e terriccio, tenendo conto anche della forza e della direzione del vento in modo da modulare l’ingresso di ossigeno: se poco, il fuoco si sarebbe spento; se troppo, la catasta si sarebbe incendiata. L’operazione poteva richiedere fino a due settimane e la qualità del prodotto finale dipendeva in gran parte dall’abilità del carbonaio nell’assicurare una “cottura” uniforme e continua. Al termine, il peso del carbone corrispondeva a circa il 20-25% di quello della legna iniziale. Nella maggior parte dei casi, il trasporto del carbone a valle era affidato alle donne.

Oltre alla produzione di carbone professionale, il cui prodotto serviva in parte rilevante per sostenere determinate operazioni industriali come quelle connesse alle attività minerarie, esisteva anche una sorta di produzione casalinga. In certe zone delle nostre valli, infatti, ancora nella seconda metà degli anni ’40 c’erano dei ragazzi capaci di realizzare, con pezzi di faggio racimolati nel bosco, delle piccole pile con cui producevano modeste quantità di carbone da utilizzare in famiglia per alimentare i ferri da stiro e per altre attività domestiche. A volte riuscivano anche a fornire il prodotto a stiratrici e persone di servizio in cambio di una mancia.

Le faggete dell’Ossola sono disseminate da piazzole che nei secoli passati hanno ospitato le carbonaie, localmente conosciute come “carbonere”, facilmente riconoscibili per il muricciolo tondeggiante che le delimita a valle. Nella prima foto se ne vede una a monte dell’Alpe Algnime, sull’Ovigo di Varzo (07.09.2019). In molti casi, magari coperti da pochi centimetri di terra, si possono ancora trovare sul posto dei pezzetti di carbone. A volte, poi, come nella seconda foto, scattata presso l’Alpe Corte, nella Valle del Dagliano, a fianco della piazzola si notano i resti del riparo utilizzato dal carbonaio (24.03.2022).

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