La legna

I boschi hanno rappresentato una risorsa importante per la popolazione ossolana nel corso dei secoli e sono stati a volte oggetto di attenzione da parte di imprese forestiere interessate a commercializzarne il legname. Nelle nostre zone, lo sfruttamento boschivo a fini mercantili è iniziato nella seconda metà del Medioevo, come è ben rilevabile dalla consultazione degli Statuti di quel tempo, per poi intensificarsi nell’Età Moderna. All’inizio l’attrezzo di base era la scure, alla quale si è poi aggiunta le sega e in particolare il troncone, cioè quella lama dentata provvista di due manici alle estremità, così da poter essere usata da due o più persone. Nel contempo, lungo i torrenti sono sorte delle segherie idrauliche nelle quali la rotazione delle pale mosse dalla corrente veniva trasformata in un movimento di va e vieni applicato alle lame taglienti. Oltre che da regolamenti e concessioni, il taglio della legna è stato regolamentato dalle fasi lunari: in luna calante venivano abbattuti gli alberi destinati a legname da opera, mentre per la legna da ardere veniva scelta la luna crescente. Inoltre, nei periodi di massima produzione vegetativa, cioè dalla primavera alla piena estate, si preferiva non tagliare. Alcuni alberi, come il larice, il castagno, la robinia, il pino e il rovere, sono considerati molto influenzati dalla luna, mentre altri, come il faggio, la betulla, il frassino e il nocciolo, lo sono molto meno. Per di più, il castagno abbisogna di stare molto tempo all’aperto dopo il taglio affinché si liberi dai tannini presenti al suo interno, altrimenti non brucia bene. In compenso, se destinato alla produzione di travi, la presenza di tali sostanze ne aumenta fortemente la durata.

A causa della conformazione impervia di una parte consistente del territorio, il trasporto della legna a valle ha rappresentato la difficoltà maggiore. Anche in Ossola, seppure in misura meno rilevante di quanto avvenuto nel Verbano e in Ticino, si è fatto per molto tempo ricorso alla flottazione, cioè al trasporto del legname per via d’acqua approfittando delle piene dei torrenti. A volte si sfruttavano quelle naturali, accatastando il materiale sulle rive e aspettando che gli straripamenti dovuti alle forti piogge stagionali lo facessero scorrere a valle, ma più spesso venivano realizzate vere e proprie dighe, le serre, utilizzando tronchi e pietrame, che poi erano fatte appositamente cedere per causare una piena artificiale. Tale tecnica comportava grossi danni alle rive dei corsi d’acqua e alle strutture che sorgevano su di esse. Pertanto, man mano che andava aumentando il numero di ponti, argini e mulini, la flottazione veniva progressivamente messa in discussione. Nel 1785 si è avuta una vibrante protesta da parte di alcuni sindaci ossolani per i danni causati da tale pratica lungo il Toce, e nel 1825 il governo sabaudo ha rafforzato la legislazione che la regolamentava. L’anno dopo, partiva da Locarno il primo battello a vapore che solcava le acque del Lago Maggiore e da allora in poi la presenza di legname ha costituito un serio pericolo per le pale delle imbarcazioni.

In Ossola, la flottazione veniva messa in atto soprattutto lungo il Toce, cioè il suo corso d’acqua principale, richiedendo il lavoro di specialisti capaci di far avanzare il legname nel dovuto modo. Le borre impiegavano due settimane per giungere da Quategno di Crodo a Beura, e una giornata da lì al Lago Maggiore. A volte, in quest’ultimo tratto venivano legate a formare delle zattere.

Nell’800 tramontava la pratica della flottazione, ma l’idea di fare scorrere il legname sull’acqua rimaneva in auge. Pertanto, in Val Vigezzo, Valle Anzasca e Valle Isorno, nonché all’Alpe Veglia, sono state allestite delle cioende, veri e propri viadotti di legno nei quali si facevano scendere i tronchi con l’ausilio di una certa quantità di acqua che d’inverno gelava e rendeva ancora più agevole lo scorrimento. In zone ripide venivano anche scavati degli amnôr, canaloni naturali liberati dai sassi o condotti scavati prendendo la terra a monte e compattandola a valle. Il personale che spingeva il legname lungo questi percorsi doveva essere particolarmente accorto per evitare incidenti. Inoltre, un altro pericolo era rappresentato dal pietrame che, durante lo scivolamento verso il basso, rischiava di incastrarsi nella testata dei tronchi causando poi seri danni alle lame delle segherie idrauliche a cui questi erano destinati.

Nell’ultima parte dell’800, una grande novità è stata l’avvento del filo a sbalzo, allora costituito da un tondino di ferro pieno, il burdiun, del diametro di 8-10 mm,  venduto in rotoli pesanti circa 40-50 kg l’uno. In virtù di tale innovazione, non solo potevano superarsi le asperità del terreno, ma la presenza di rupi a picco, prima viste come un ostacolo, ora rappresentava una facilitazione. Innanzitutto bisognava calcolare la lunghezza del filo, aggiungendo circa il 20% alla distanza da percorrere in linea d’aria. Poi bisognava procedere al faticoso trasporto a spalla delle bobine di cavo fino ai luoghi di partenza del legname. Nel caso in cui la lunghezza del rotolo non era sufficiente, occorreva saldarne due o più tra loro. Quest’operazione era molto delicata e richiedeva particolare destrezza. Innanzitutto si smussavano con una lima i due capi da saldare per una lunghezza di qualche centimetro, così da conferire loro una forma a becco di clarino, detta unghia, tale da poterli giustapporre l’uno all’altro senza causare variazione nel diametro totale. Dopo averli inumiditi con la saliva, venivano ricoperti di sali di boro (ul burasc, che si comprava in ferramenta) e avvolti con il bossolo di una cartuccia di ottone del fucile calibro 91 privata del fondo e aperta in senso longitudinale. In mancanza di questa si poteva usare del filo o delle piastrine di rame. Dopo aver aggiunto altro burasc, si metteva il tutto nella brace di carbone con la superficie di giunzione in posizione verticale, affinché l’ottone vi colasse dentro e procedesse alla saldatura, cosa che richiedeva in genere 2-3 minuti e doveva avvenire lentamente per evitare che il ferro, scaldandosi troppo, risultasse poi indebolito. Il punto debole dei fili a sbalzo era infatti rappresentato dalle sezioni vicine alla saldatura: se fatta bene, questa non si rompeva mai ma il filo poteva spezzarsi subito sopra o sotto di essa. Al termine si rifiniva l’area della giunzione con una lima per assicurarsi che non rimanessero protuberanze o variazioni di diametro. L’intera operazione durava circa un’ora.

Negli anni ’40 sono giunte in Ossola le cordine intrecciate, più leggere, resistenti e maneggevoli rispetto al burdiun in ferro pieno. Queste venivano giuntate svolgendo le due estremità per una lunghezza proporzionale al loro diametro: se questo era di 7 mm, le si doveva svolgere per 3 metri e mezzo ciascuna, se era di 1 cm, per 5 metri ciascuna. Poi i singoli capi venivano riavvolti intrecciando i fili dell’uno su quello dell’altro mediante un apposito attrezzo. Esistevano però anche esempi di saldatura tra una cordina e un burdiun, che avveniva utilizzando il sistema della cartuccia di ottone.

Nel punto di partenza a monte, il filo a sbalzo veniva fissato a una sbarra di ferro infissa nella roccia o a un grosso albero, poi lo si teneva sollevato dal suolo tramite un cavalletto che, se formato da due pali convergenti verso l’alto fino a incrociarsi, veniva chiamato tenda. Per assicurare una buona stabilità, l’angolo tra il filo a sbalzo e il cavalletto doveva essere uguale su entrambi i lati di quest’ultimo. Il legname veniva agganciato al burdiun o alla cordina tramite delle corde a loro volta annodate su rampini di legno che assicuravano lo scorrimento lungo il filo. In basso, la corsa veniva arrestata contro la batuda, composta da due robusti pali di legno infissi nel terreno in posizione inclinata verso valle, dietro ai quali si faceva scorrere il torn, un terzo palo disposto orizzontalmente attorno al quale veniva avvolto il filo. Il torn era provvisto di fori sfasati, che lo perforavano per tutto il suo diametro, nei quali si infilavano delle sbarre di ferro in maniera alternata tra destra e sinistra, così da farlo ruotare fino a quando il filo a sbalzo risultava teso in maniera ottimale. Se il filo era troppo molle poteva formarsi una sorta di sacca, a circa due terzi della discesa dall’alto, nella quale la corsa del carico veniva ad arrestarsi. In questo caso si provvedeva a far partire un carico di un certo peso, magari utilizzando delle carrucole metalliche affinché scorresse più velocemente e giungesse a smuovere quello fermatosi. Se però l’arresto era dovuto a un rampino che si impigliava nel filo, l’operazione poteva comportare la caduta del carico. Per ammortizzare l’urto del carico contro la batuda, si ponevano davanti a questa dei fasci di frasche, poi sostituite da vecchi copertoni quando hanno preso a diffondersi i veicoli a motore.

Esistevano poi dei sistemi complessi adottati da grosse imprese di boscaioli. Tra questi, in varie parti dell’Ossola erano state allestite delle teleferiche con sistema valtellinese, cioè disposte secondo un percorso triangolare: il carico veniva legato a una corda traente per cui, mentre scendeva, il suo peso ne faceva salire un altro dal lato contrapposto. In questo modo, si potevano superare anche dei tratti in salita senza ricorrere a forze motrici esterne. L’aggancio alle cordine veniva assicurato da un particolare attrezzo, detto cagna, provvisto di due cerchi metallici che, per il peso del carico, si serravano attorno al cavo traente. Giunto a destinazione, bastava sollevare il carico affinché i due cerchi si aprissero e permettessero quindi un rapido sganciamento.

Un burdiun presso l’Alpe Crott Sopra (Premosello, 22.10.2022), una batuda presso Tugliaga (Varzo, 21.05.2020) e una cagna presso l’Alpe Beglia (Crevoladossola, 03.05.2020)

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