Anche se il suolo ossolano è prevalentemente di natura silicea, in diversi punti presenta affioramenti di roccia calcarea, il cui principale componente è la calcite. Per sfruttarne le caratteristiche, nei secoli passati sono state costruite delle fornaci per la calce, o calchere, ancora oggi ben visibili. Si tratta di una sorta di silos circolari, del diametro di qualche metro, con parete in pietra gneissica all’interno della quale ne veniva addossata una in roccia calcarea. Tale rivestimento interno giungeva in alto a chiudersi a volta, ostruendo così l’apertura lasciata dalle lastre sommitali del muro in gneiss. Il fuoco al centro veniva acceso attraverso la porta situata nella parte bassa e veniva continuamente alimentato mediante la fornitura di fascine di legna in modo da produrre forti fiamme che assicurassero una temperatura compresa tra 800 e 1100 gradi centigradi per almeno tre giorni e tre notti. Per facilitare il mantenimento di temperature così alte, le fornaci ossolane erano spesso costruite in posizione parzialmente interrata. In seguito al calore che si spandeva nelle aperture tra le pietre calcaree, la calcite (CaCO3) liberava anidride carbonica (CO2) e si trasformava in ossido di calcio (CaO), detta anche calce viva in quanto molto irritante. Questa, in seguito a immersione in acqua, emetteva calore e veniva idratata a idrossido di calcio: Ca(OH)2, cioè calce spenta, usata localmente per produrre malta da muratura o da intonaco. Attorno a tali strutture, ancora oggi si possono trovare resti di calce spenta che, venuti a contatto con l’aria, hanno assorbito anidride carbonica e perso acqua, riformando così il calcare.
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