Botanica

Immergersi nei particolari

1. Piante velenose

1.1. Aconito

Sulle montagne ossolane si registra la presenza di due specie di aconito caratteristiche delle Alpi: Aconitum napellus e Aconitum lycoctonum. Come molte piante della loro famiglia, le Ranunculaceae, sono dotate di tossicità. Prediligono luoghi umidi e ombreggiati per cui le si ritrova soprattutto in zone rivolte a Nord. Superano spesso il metro di altezza e sono facilmente distinguibili per la forma del fiore, con il sepalo superiore a forma di elmo, e delle foglie, palmate e riccamente dentate con profonde incisioni. Aconitum napellus ha i fiori di un bel colore blu intenso e si ritrova a volte anche nei prati in cui erano stati sparsi i liquami delle stalle, fino a oltre 2500 metri di altitudine. Aconitum lycoctonum ha fiori giallo tenue ed è più frequente in zone rocciose, fin verso i 2100 metri. Fioriscono da giugno a settembre e, per il piacevole aspetto, sono a volte coltivati anche in giardini.
La tossicità è dovuta a diversi alcaloidi diterpenici (tra i quali soprattutto l’aconitina in Aconitum napellus, la licaconitina e la mioctonina in Aconitum lycoctonum), presenti in tutta la pianta, ma soprattutto nelle radici tuberose. Queste ultime, opportunamente essiccate e diluite, venivano un tempo impiegate in medicina tradizionale come analgesico, antinfiammatorio, antireumatico e calmante della tosse. L’utilizzo è stato però limitato a causa della pericolosità molto elevata, soprattutto a seguito di ingestione: i sintomi si presentano nel giro di un quarto d’ora con sudore e formicolii, ai quali fanno seguito torpore, alterazione del ritmo cardiaco, paralisi dei nervi periferici e morte per arresto respiratorio. Si tratta di uno dei più potenti veleni vegetali conosciuti e pochi grammi di radice fresca sono talvolta sufficienti a uccidere una persona adulta, tanto che in passato l’estratto della pianta veniva usato per avvelenare la punta delle frecce. Essendo composti altamente lipofilici, possono essere assorbiti anche attraverso la pelle, ad esempio quando si tiene in mano un mazzo di fiori per un certo tempo, provocando prurito e vescicole.

Per la ricchezza di ambienti umidi e ombreggiati, l’Ovigo della Val Divedro è un luogo ottimale per la crescita dell’aconito. A sinistra si vede Aconitum napellus nei pressi di Camona (07.08.2022), a destra Aconitum lycoctonum nei pressi di Albiona di Fuori (14.08.2019).

1.2. Paris quadrifolia

Comunemente detto uva di volpe, appartiene alla famiglia delle Melanthiaceae e non supera i 40 cm di altezza. Il nome della specie è dovuto alle quattro foglie ovali disposte regolarmente sullo stesso piano a formare una croce. Cresce in zone ombrose e fresche fino a 2000 metri di altitudine. Verso la fine dell’estate, dall’unico fiore al centro si sviluppa una bacca simile al mirtillo ma di sapore sgradevole e assai tossica. Contiene infatti i glicosidi terpenici paridina e paristifina che possono causare vomito e diarrea, fino a giungere a sonnolenza e paralisi respiratoria. Un tempo era usata per le sue proprietà purgative, analgesiche e anticoagulanti.

La bacca di Paris quadrifolia (qui fotografata presso l’Alpe Tenda, sull’Ovigo della Val Divedro, il 22.09.2021) matura a fine estate, è molto tossica e assomiglia a quella del mirtillo: per fortuna ha un sapore disgustoso!

1.3. Veratro

Quando si chiedono informazioni agli anziani sulla raccolta della genziana, questi raccomandano subito di non confonderla con il tossico veratro: disponendo le mani a coppa, con i palmi rivolti verso l’alto, mettono i due polsi a contatto tra loro per mimare la disposizione opposta delle foglie di genziana; poi portano una mano più in alto dell’altra per indicare la disposizione alterna delle foglie di veratro. Le due piante condividono infatti ambienti simili: radure e pascoli fino a oltre 2000 metri. Anche i fiori sono diversi ma in genere non sono più presenti quando, verso l’autunno, si raccolgono le radici di genziana per preparare il tradizionale liquore amaro.
Appartenente alla famiglia delle Melanthiaceae, Veratrum album può superare il metro d’altezza e presenta fiori di colore giallo tenue disposti a formare una sorta di pannocchia nella parte superiore del fusto. Tutta la pianta, e soprattutto le sue parti sotterranee, sono tossiche per la presenza di alcuni alcaloidi steroidei, le veratrine, che possono dare disturbi gastroenterici e cardiaci, fino al collasso.

A causa della forma delle foglie molto simile, il veratro, pericoloso in quanto tossico, può essere confuso con la genziana, la cui radice viene utilizzata nella fabbricazione del tradizionale liquore amaro. Qui si possono confrontare le foglie opposte di Gentiana punctata (nella foto a sinistra, nei pressi del Passo San Giacomo, in Val Formazza) e quelle alterne di Veratrum album (nella foto a destra, sopra Lorino, sull’Ovigo della Val Divedro).

1.4. Maggiociondolo

Il maggiociondolo, alberello appartenente alla famiglia della Fabaceae, deve il proprio nome comune agli eleganti grappoli di fiori gialli che in maggio pendono dai rami. Contrariamente a quanto il suo aspetto potrebbe far pensare, si tratta di una pianta alquanto tossica per la presenza di citisina, un alcaloide velenoso per l’uomo e gli animali domestici, ma non per api e uccelli. Una volta, valutando bene la dose, veniva usato come calmante per la tosse, digestivo e purgante. Oggi invece è utilizzato per smettere di fumare. La scoperta è stata casuale: durante la Seconda Guerra Mondiale, alcuni soldati russi, in astinenza da fumo, si erano accorti che si potevano fumare anche le foglie di maggiociondolo, con effetti simili a quelli della nicotina. In effetti i recettori cerebrali sono in parte comuni. Diffusosi negli anni ’60 nei Paesi dell’Est, in Italia è disponibile per tale scopo dal 2015 e ha dato finora buoni risultati nonostante possa causare nausea, sonnolenza e diminuzione dell’appetito.

Anche se viene comunemente ritenuto un’unica pianta, in realtà ce ne sono due specie, del resto assai simili: il maggiociondolo comune (Laburnum anagyroides, detto anche Cytisus laburnum) e il maggiociondolo alpino (Laburnum alpinum). Il primo cresce anche nei fondovalle e non oltrepassa di molto i 1000 metri di quota, mentre il secondo si trova anche sopra i 1500 metri. In genere non superano i 10 metri di altezza, anche se la specie comune può arrivare fino ai 15. Prediligono i terreni acidi e spesso si trovano in associazione con i faggi. Le foglie sono trilobate e il frutto, molto velenoso, è simile a un fagiolo scuro. Oltre che nell’area alpina, si trovano anche nel Giura, sull’Appennino e nei Balcani. In Italia mancano nelle due isole maggiori.

Il legno di maggiociondolo è molto apprezzato per la durezza e resistenza, tanto da meritarsi il soprannome di “falso ebano”. Tradizionalmente in Ossola veniva usato per produrre i biröi, cioè i cavicchi che fissavano il punto di congiunzione tra i due puntoni nelle capriate dei tetti in piode.

2. Piante carnivore

Al mondo esistono all’incirca 600 specie di piante carnivore. Adattatesi a vivere su suoli poveri di nutrienti, in particolare l’azoto e il potassio, hanno sviluppato la capacità di assumerli con la parte aerea, visto che attraverso le radici non se ne possono procurare a sufficienza. Catturano quindi piccoli animali, soprattutto insetti, attraverso meccanismi diversi a seconda del genere. Sulle Alpi ne abbiamo due generi: Pinguicula e Drosera.

2.1 Pinguicula

Alta non più di 15 cm, cresce in luoghi umidi, spesso vicino a stagni e torbiere, e alla base è provvista di una rosetta di foglie untuose le quali, dopo aver fatto aderire gli insetti che vi si posano, emettono dei secreti in grado di digerirli e poi ne assorbono i componenti.

Sulle Alpi ne esistono tre specie: P. alpina ha i fiori bianchi con macchia gialla mentre P. leptoceras e P. vulgaris li hanno azzurri con macchia bianca e si differenziano tra loro perché nel caso della prima i margini dei petali sono sovrapposti e la macchia bianca non si estende in profondità all’interno della corolla, cosa che avviene invece per la seconda, la quale presenta inoltre i petali divergenti.

Pinguicula leptoceras, qui fotografata al margine di uno stagno nei pressi del Lago di Arza, in Val Bognanco (10.06.2022). È ben visibile la rosetta di foglie untuose alla base. I margini dei petali parzialmente sovrapposti e la macchia bianca sui petali che non si estende in profondità all’interno della corolla permettono di differenziarla da Pinguicula vulgaris.

3. Piante invasive

Secondo una ricerca durata quasi 30 anni e pubblicata nel 2018, in Italia sono presenti 9792 specie di piante, delle quali 1597 sono aliene. Il Piemonte presenta una ricca biodiversità ed è la regione italiana che annovera il maggior numero di specie autoctone (3464), ma anche una notevole abbondanza di specie esotiche (dette anche aliene o alloctone). Alcune di queste sono state introdotte intenzionalmente per scopi agricoli (basti pensare, in passato, a mais, patate, fagioli e pomodori), ornamentali (come le magnolie) o di rimboschimento (come la quercia rossa), altre accidentalmente a seguito dei trasporti di merci o persone. A prescindere dalla via di introduzione, alcune piante giunte da fuori hanno preso a diffondersi in maniera incontrollata, tanto da minacciare gli ecosistemi e le altre specie. In questo caso si parla di specie esotiche invasive. Secondo le liste regionali aggiornate all’ottobre 2022, in Piemonte ce ne sono 73, delle quali 47 non più eradicabili.

3.1 Buddleja davidii

Introdotta nei giardini botanici del Lago Maggiore a fine Ottocento per scopi ornamentali, la Buddleja davidii, originaria della Cina, è ormai una costante in varie parti dell’Ossola. Facilmente riconoscibile per le foglie allungate e le sue appariscenti infiorescenze a pannocchia, di colore variabile dal rosa al fucsia e a volte azzurrine, rimane fiorita dalla tarda primavera all’autunno, caratteristica che spiega la sua denominazione di “albero delle farfalle”. Tuttavia, essendo molto invasiva e provocando la scomparsa di altre specie botaniche, risulta utile solo alle farfalle generaliste mentre ostacola quelle che per il loro sviluppo hanno bisogno di piante ben precise. La buddleja presenta un fusto non molto resistente ma fittamente ramificato, tale da formare delle barriere difficilmente superabili dagli escursionisti. Anche se non supera l’altezza di 3-4 metri, le sue radici si sviluppano nel terreno per un’analoga profondità, ostacolando lo sviluppo di altre piante. Si tratta di una vera e propria bomba biologica, e ogni esemplare può produrre fino a 3 milioni di semi all’anno. Si riproduce inoltre mediante stoloni sotterranei e ricacci dalle ceppaie, per cui è difficilmente controllabile. Nonostante la sua struttura arborea, riesce a svilupparsi anche a partire da piccole fessure dei muri, dove altrimenti si trovano solo piccoli steli d’erba. È particolarmente diffusa nei terreni degradati, come i greti dei torrenti e le cave abbandonate, dove costituisce delle fitte foreste pressoché impenetrabili. Allo stato attuale, non la si trova al di sopra dei 1300 metri.

3.2 Senecio inaequidens

I semi di Senecio inaequidens sono stati introdotti a fine ‘800 dal Sudafrica a seguito dell’importazione di lana grezza contenuta in sacchi di juta che erano stati accidentalmente inquinati dai suoi semi. In Italia è stato trovato nel 1947 in provincia di Verona, mentre in Piemonte è apparso nel 1974 lungo il Sesia. Oggi è diffuso a tutte le regioni. Si presenta come un fiore giallo, non molto dissimile da quello dell’arnica, provvisto però di foglie caratteristiche: lunghe alcuni centimetri e larghe pochi millimetri, hanno l’aspetto di sottili striscioline provviste di piccoli denti irregolari (da cui il nome inaequidens) su entrambi i margini. Resta fiorito da aprile a dicembre e ogni pianta produce fino a 30mila semi. Questi possono rimanere vitali nel terreno per diversi anni e, oltre che con il vento, si diffondono tramite camion e altri mezzi per movimento terra.

In aggiunta alla sua invasività, il senecione è temuto per il contenuto in alcaloidi pirrolizidinici nocivi per il fegato del bestiame che se ne ciba. Particolarmente sensibili risultano gli equidi e in una certa misura anche bovini, suini e galline, mentre ovicaprini, tacchini e ruminanti selvatici sembrano più resistenti. Solitamente gli animali lo rifiutano a causa del sapore amaro, caratteristica che viene però persa con la fienagione, mentre la tossicità rimane. Tramite latte, miele, carne e uova può passare alle persone, provocando problemi di fibrosi e cirrosi epatica oltre a una certa cancerogenicità. Raggiungendo anche quote superiore ai 1700 metri, questa pianta rappresenta un pericolo per gli alpeggi. In anni recenti, a seguito di lavori di manutenzione sulle carreggiate, è stata trovata sulle strade di accesso all’Alpe Devero e all’Alpe Veglia, ma è stata prontamente estirpata e bruciata sul posto dai guardiaparco.

A causa della sua pericolosità e l’alto livello di diffusione, il senecione sudafricano è stato scelto per la copertina della pubblicazione sulle piante invasive realizzata dalla Regione Piemonte. Nella foto sopra lo si vede ancora fiorito in autunno inoltrato, l’8 novembre 2019, in una zona di Varzo interessata dall’intervento di mezzi per lo spostamento terra. In quella in basso, scattata nella stessa occasione, si può invece valutare la particolare forma delle foglie.